venerdì 12 settembre 2014

TG3, Linea notte estate

Mercoledi 17 settembre: Anna Pettini presenta "Quale crescita" (dal 31° minuto, il più in basso dei due link del 18/9/2014)

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giovedì 11 settembre 2014

Cronache laiche - the Globalist

Dall'Homo oeconomicus al fascismo finanziario 
Intervista ad Andrea Ventura su "Quale crescita", a cura di Federico Tulli

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left, 14 agosto n. 31-32,

IL PARADOSSO DEL TEMPO LIBERO
di Simona Maggiorelli

Il benessere non si misura con il Pil. E i consumi non portano la felicità. Ma la soluzione non è neanche la decrescita, dicono gli economisti di "Quale crescita". Occorre superare una vecchia antropologia basata sull’Homo oeconomicus



La crescita economica è stata per lunghi anni l’obiettivo da perseguire con ogni mezzo nei Paesi del capitalismo avanzato. Ma il prezzo che si è dovuto pagare anche in termini di distruzione dell’ambiente è stato altissimo. Per non dire dei costi umani. Con l’emergere di nuovi schiavismi e, dall’altro lato, di modi di vita iper consumistici, alienati e alienanti. L’evidente crisi strutturale di questo modello economico può essere, però, anche l’occasione buona per un cambio di marcia; per studiare nuovi e più sostenibili modelli di sviluppo. Ma per riuscire a farlo in modo efficace oggi occorre allargare lo sguardo oltre i confini dell’economia, coinvolgendo anche la filosofia, l’antropologia e la psicologia, suggeriscono gli economisti autori di Quale crescita (L’Asino d’oro edizioni).

Con questo volume, i curatori Anna Pettini e Andrea Ventura, insieme a Ernesto Longobardi e ad altri studiosi, aprono un dibattito multidisciplinare che mette in discussione molti idoli dei nostri tempi. A cominciare dal mito della crescita esponenziale e dalla fede nel Pil. «Il prodotto interno lordo conteggia il valore della produzione delle attività che hanno un controvalore monetario. Non è un indice di benessere», spiega l’economista Anna Pettini. «Basta dire che dal prossimo autunno, per direttiva comunitaria, conteggerà anche l’economia illegale: droga, prostituzione e contrabbando. Senza che nessuno protesti, dal momento che aiuta ad aumentare il Pil», rileva la docente di Economia politica all’Università di Firenze. «L’idea che maggiore attività significhi maggiore movimento e creazione di ricchezza e che, da questa, si crei necessariamente benessere è completamente da rivedere», dice Pettini. «Questa equazione era sensata quando c’erano da comprare il frigorifero e la prima automobile, oggi la questione è più complessa. Come evidenzia da alcuni decenni l’economia della felicità sottolineando la rottura del nesso causale: più ricchezza- più felicità». Il problema è che abbiamo ancora un modo di pensare che risale al dopoguerra? «Siamo rimasti bloccati a quando ciò che mancava erano i beni di consumo, mentre per le persone oggi contano accesso alle cure, salute e qualità della vita. Parlare di crescita non ha senso se non la qualifichiamo». E in questo quadro, sostengono gli economisti di Quale crescita, la teoria della decrescita felice non offre una soluzione valida. «Non si può riavvolgere il nastro della storia per ritrovare il funzionamento dell’economia “che fu”, che garantiva un miglioramento per tutti», evidenzia Anna Pettini. «È indispensabile guardare avanti, il mondo è cambiato radicalmente, a partire dal senso e dalle forme del lavoro, e da ciò che questo significa in termini di classi sociali. Per non dire della velocità con cui si possono spostare i capitali».

Ma occorre anche un cambiamento culturale, suggerisce Anna Pettini è venuto il momento di mettere radicalmente in discussione il modello di Homo oeconomicus che ha prevalso in Occidente, un’idea di essere umano centrato su una razionalità strumentale, volta all’utile, al guadagno, improntata sul principio vita mea mors tua; un’idea di uomo in fondo povero di umanità e di vere relazioni con gli altri.
«Il fatto è che il modello moderno di Homo oeconomicus non è neanche più quello che viene fatto risalire alla filosofia utilitaristica», precisa Ernesto Longobardi, ordinario di Scienza delle finanze all’Università di Bari. «C’è un abisso tra i filosofi utilitaristi e i moderni economisti. L’utilitarismo era una filosofia etica, e politica, che si poneva il problema della massimizzazione della felicità collettiva. La versione moderna è una macchina calcolante, più vicina, nel comportamento, all’animale che all’uomo. Per questo oggi è importante porre al centro dell’analisi economica una diversa teoria della realtà umana».
«Nella letteratura scientifica – aggiunge l’economista Andrea Ventura – si assume che l’Homo oeconomicus preferisca sempre il più al meno, cioè che non abbia mai abbastanza. Per soddisfare questo strano individuo i nostri sistemi economici dovrebbero dunque produrre sempre una maggiore quantità di merci. La cosa interessante – sottolinea il docente di Economia politica dell’Università di Firenze – è che ciò che gli economisti considerano un tratto fondamentale della natura umana, in psichiatria e in psicologia, è visto come patologico». Dunque occorre liberarsi di una vecchia visione “antropologica”? «Esattamente», risponde Ventura. «Occorre superare un’antropologia assai radicata, quella che dalla favola della api di Mandeville arriva alla celebre massima di Benjamin Franklin per la quale “il tempo è danaro”, per approdare appunto all’Homo oeconomicus moderno. Un’antropologia disumana che costituisce il fondamento dell’accumulazione capitalistica fine a se stessa. Il tempo è denaro per il capitale- sottolinea Ventura – non per gli esseri umani. Ma il capitale è un prodotto umano, una forza sociale che esprime appunto in massimo grado quest’antropologia malata e purtroppo molto radicata nella teoria economica e nella cultura. Non c’è prospettiva di superamento degli aspetti distruttivi dei nostri sistemi economici se non a partire dal riconoscimento di questo fatto».

Basta pensare a quanto è accaduto negli Stati Uniti, scrive Stefano Bartolini in Quale crescita: «Mentre gli Usa si stavano trasformando nel paradiso dell’opulenza consumistica, l’americano medio si sentiva sempre peggio». Una riflessione che fa tornare alla mente il protagonista del romanzo Sei ricco, coniglio (Einaudi): Harry, un venditore di Toyota che lo scrittore John Updike tratteggia come perfetta incarnazione dell’everyman americano drammaticamente in fuga da se stesso. Ma anche in Europa, sul piano sociologico, c’è un dato che colpisce: i più alti tassi di suicidio e di consumo di psicofarmaci si riscontrano negli ordinati ed efficienti Paesi avanzati del Nord. è solo un caso? «È il paradosso della felicità», risponde Longobardi. «Nel libro Quale crescita Stefano Bartolini parla di “crescita endogena negativa”, una spirale, secondo la quale lo sviluppo si basa sui consumi privati, a scapito di beni relazionali, la distruzione delle relazioni porta infelicità, a cui si reagisce con maggiori consumi privati e così via». Come si può uscire allora da questa spirale negativa? «Sul piano delle politiche pubbliche è urgente una radicale inversione di tendenza. Che richiede una dimensione sia nazionale che europea. Abbiamo bisogno di un nuovo “New Deal”», avverte Andrea Ventura. Ma, aggiunge: «Può essere veramente nuovo solo se non è né basato unicamente su modelli economici o sul recupero della religione (i leader della sinistra col rosario in tasca ci portano poco lontano). Il punto cruciale, a nostro avviso, è costituito dalla necessità del superamento di una visione economica e antropologica che ha i suoi effetti devastanti su tutti gli ambiti sociali». Ovvero? «La capacità delle società avanzate di assicurare il progresso civile si misurerà su quanto terranno conto delle esigenze delle persone, una volta soddisfatti i bisogni fondamentali. È qui, nella realizzazione delle esigenze che riguardano la sfera psichica e il rapporto interumano il punto cruciale».
Dunque le politiche economiche dovrebbero guardare con meno sospetto alla cultura, all’arte, a tutto ciò che, per dirla con l’articolo 3 della nostra Costituzione, che favorisce «il pieno sviluppo della persona umana». Ma occorrerebbe forse anche tornare a riflettere su cosa è diventato il tempo libero, nell’era del supercapitalismo. Karl Marx parlava di «tempo liberato» come un tempo di non lavoro, da dedicare allo studio, allo sviluppo del proprio talento, alle relazioni umane. Una conquista che il filosofo del Capitale pensava fosse realizzabile con l’“avvento” della dittatura del proletariato. Iscrivendola in una prospettiva insieme profetica e deterministica tipicamente ottocentesca. Per quanto questo “meccanicismo” della riflessione marxiana mostri la corda , resta il fascino dell’espressione “tempo liberato”, che, paradossalmente, oggi è diventata il titolo di una pagina culturale del giornale della Confindustria.
«Quello del tempo libero è un tema centrale nel lavoro del gruppo di economisti che ha lavorato al volume Quale crescita», afferma Longobardi. «Il tempo libero era visto da Marx come la dimensione della più piena realizzazione umana. Oggi – nota il professore – il tempo libero è sotto attacco in un duplice senso: da una parte, il tempo libero è ridotto al minimo in tutte le aree del nuovo sfruttamento, quella degli working poor, lavoratori anche molto qualificati che lavorano anche dieci ore al giorno; dall’altra l’impiego del tempo libero, per quelli che lo hanno, viene snaturato da consumi pensati per un uomo sempre più terribilmente solo e ripetitivo. Il tema del tempo libero e quello dei beni comuni sono strettamente intrecciati. I beni comuni sono tali in quanto legati allo stare insieme: le relazioni umane richiedono tempo libero e il tempo libero richiede relazioni umane». Quanto alla cultura, oggi in Italia è depauperata di risorse pubbliche e sottovalutata dalla nostra classe politica. Non solo nella concezione di destra, plasticamente rappresentata dall’espressione «con la cultura non si mangia» coniata dall’ex ministro dell’Economia Tremonti. Ma anche nella concezione dei beni culturali come “brand” da sfruttare che impronta la filosofia renziana e che concretamente significa depotenziamento delle soprintendenze e incremento di operazioni di marketing affidate a manager senza specifiche competenze di storia dell’arte e di archeologia. Significa sfruttamento del patrimonio pubblico per avere un ritorno di immagine, incuranti dei rischi che comporta, per esempio, noleggiare il Ponte Vecchio alla Ferrari per una festa privata. «è dilagata una forma deteriore direi di “aziendalismo” più che di economicismo – conclude Longobardi -, lo stesso è successo nella sanità, dove l’impronta di tipo manageriale sta prendendo il sopravvento sulle competenze dei medici, con risultati che saranno disastrosi. Come invertire questa tendenza? è difficile invertirla, ma almeno urliamo a più non posso».

left n. 13, 6 aprile 2013

Crescere non basta
Ernesto Longobardi, Anna Pettini, Andrea Ventura
A cosa serve produrre e consumare merci se non migliora la qualità della vita? Un convegno a Firenze prova a rispondere a questa domanda. Alla ricerca di un’economia della felicità. Che rimetta al centro l’uomo. Non il PIL
Dall’esplosione della crisi del 2008 la stampa e la letteratura specialistica lamentano il fatto che la crescita, nei Paesi a più vecchia industrializzazione e nel nostro in particolare, ristagna e non riesce a garantire lavoro per tutti. Al contempo sono sempre più diffuse le preoccupazioni circa gli effetti negativi sull’ambiente causati dalla crescita stessa e ci si richiama alla necessità che essa sia orientata in modo non soltanto “quantitativo”.
Ma, nonostante l’evidente contraddizione tra la necessità della crescita e la consapevolezza che essa presenta aspetti distruttivi, di fatto si continua a ragionare quasi esclusivamente in termini di breve e brevissimo periodo, di urgenze, di come coprire questo o quel rischio di collasso, dando per scontato che tutto ciò che serve è tornare a crescere. Le politiche economiche di cui si discute si mantengono in grandissima parte su questo piano. Si può ipotizzare che ciò avvenga anche perché manca una visione alternativa e un confronto approfondito tra concezioni dell’economia, della società e dello sviluppo umano, sia sul piano della cultura sia su quello politico e della letteratura specialistica.
È ovvio che il malessere sempre più diffuso provocato dalla crisi, evidente e tangibile in termini di impoverimento, incertezza e insicurezza sociale, chiede interventi di veloce applicazione. Un po’ meno evidente l’osservazione che ripristinare lo stato pre crisi lascerebbe irrisolte sofferenze non meno importanti e sottolineate da più di dieci anni da un numero sempre crescente di economisti che si interessano di “economia della felicità”, ovvero di tutti i temi collegati al declino oggettivo e soggettivo della “qualità della vita”.
Quali sono le cause dell’impoverimento qualitativo? Di volta in volta le risposte si concentrano su aspetti diversi dello stesso problema: gli stili di vita e i ritmi di lavoro di chi vive nelle grandi città dei Paesi a economia avanzata provocano un continuo allentamento della socialità e questo si accompagna a standard di consumo sempre più orientati all’accumulo quantitativo. I beni gratuiti vengono continuamente sostituiti con beni commerciabili e questo alimenta il circolo vizioso: per acquistare più cose c’è bisogno di maggior reddito, dunque di lavorare di più e ciò diminuisce il tempo a disposizione per autoprodurre le merci e godere dei beni relazionali. Insomma, le logiche di mercato, se non opportunamente arginate, alimentano comportamenti asociali in nome dell’efficienza produttiva.
Ricorre, negli studi, il riferimento all’immagine del tapis roulant, per descrivere i vissuti individuali di obiettivi di vita sempre ugualmente lontani nonostante la corsa incessante e così spiegare l’impossibilità di raggiungere la felicità. Questi argomenti vengono utilizzati anche da organizzazioni internazionali come l’Organizzazione mondiale per la sanità e la commissione europea per gli Affari sociali, per interpretare la crescente diffusione della depressione e l’uso assai diffuso e crescente di psicofarmaci.
Sul Journal of economic literature, prestigiosa rivista internazionale, possiamo leggere la seguente affermazione: «Si fa presto a parlare della teoria che sta dietro agli indicatori sociali alternativi al Pil, perché ce n’è pochissima». Le definizioni e i confronti tra indicatori, sostiene l’autore dell’articolo (Fleurbaey, 2009), si basano su convenzioni o su proposizioni etiche. Avere poca teoria per parlare di alternative al Pil, dunque per parlare di criteri di valutazione dell’economia e della qualità della vita, significa non avere categorie interpretative della realtà, né basi di confronto su cui sviluppare le politiche di sviluppo.
Eppure da tempo un numero sempre maggiore di economisti si interessano dei tanti aspetti umani e sociali trascurati dalla teoria tradizionale e dai sistemi economici da essa creati. Quindi forse si dovrebbe dire che non è così vero che esiste pochissima teoria. Piuttosto ciò che esiste è frammentato in tante piccole nicchie di studio ancora isolate fra loro e che per questo non riescono a proporsi con forza sufficiente. Con l’obiettivo di accostare e porre a confronto le riflessioni di alcuni studiosi appartenenti a tali nicchie e con impostazioni di ricerca solo apparentemente lontane, venerdì 12 aprile, presso il Polo delle Scienze sociali di Firenze, si terrà una giornata di lavoro organizzata per riflettere su alcuni temi che incidono sul modello di sviluppo delle società occidentali.
Come riferimento iniziale, è stato scelto il noto saggio di J.M. Keynes Possibilità economiche per i nostri nipoti. Nel 1930 Keynes vedeva, a dispetto della recentissima crisi economica di allora, i segni di una possibile soluzione del problema economico: l’enorme tasso di crescita delle economie occidentali avrebbe a suo avviso portato l’umanità, nel giro di cento anni, ad affrancarsi dalla lotta per la sopravvivenza.
Nonostante Keynes centrasse tutto il suo ragionamento sull’Occidente e trascurasse i popoli rimasti fuori dall’industrializzazione, il suo saggio coglie un punto importante: cosa comporta il fatto che la lotta per la sopravvivenza, sempre pressante per la nostra specie, possa un giorno essere risolta, e che l’umanità si ritrovi priva del suo obiettivo più tradizionale? «Sarebbe un bene?», si chiede Keynes. «Per la prima volta dalla creazione, l’uomo si troverà ad affrontare il problema più serio [..] come sfruttare la libertà dai bisogni economici, come occupare il tempo libero [..]».
È chiaro che affrontare una questione di tale portata implica una ricerca che investe problematiche prima culturali e “antropologiche”, e solo in seguito di politica economica. Eppure, anche per gli economisti, i quesiti posti da quel saggio di Keynes appaiono ineludibili e impellenti. Oggi, nello specifico, appare cruciale chiedersi se sia possibile rincorrere ancora un modello di crescita quantitativa, che da tempo mostra i suoi limiti, senza chiederci cosa e come produciamo, come distribuiamo le ricchezze prodotte, quali sono i bisogni fondamentali da garantire per tutti, quale è la via per uno sviluppo umano non appiattito sulla crescita dei consumi materiali.
Guardando oltre i limiti del saggio di Keynes, su cui tanti economisti contemporanei hanno recentemente concentrato le più aspre critiche, si può suggerire che l’economista inglese aveva colto un punto su cui vale la pena di riflettere: l’umanità è pronta oggi ad esprimere un nuovo uso delle risorse economiche e naturali, del tempo e delle attività di consumo? La contraddizione fondamentale è forse quella tra una potenza economica e tecnologica in grado di soddisfare i bisogni di tutti e una cultura che non è capace di indicare una via per il benessere delle persone, fuori dalla lotta di tutti contro tutti per accaparrarsi risorse scarse, oltre l’antropologia dell’homo oeconomicus? La giornata di lavoro è una prima occasione per impostare la ricerca su queste domande.

Unomattina estate, 23 luglio


Il caffè di Raiuno - a circa 5 minuti dall'inizio, Ernesto Longobardi presenta "Quale crescita"

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